Imparo ogni volta che vedo un loro sorriso. Ogni volta che sento una battuta su una ragazza che passa per la strada. Apprendo come rialzarsi dopo una grande caduta. Come reagire alle delusioni, come rimediare gli errori commessi in passato. Imparo tutto questo parlando con gli invisibili del dormitorio Tari, con i senzatetto.
Mi chiamo Nicola Samana: amo perdermi tra i diversi pensieri che animano il mondo, amo ascoltare.
Ho deciso di raccontarvi la mia storia.
L’idea di condividere tutto questo con voi nasce dalla necessità di ringraziare i miei maestri ai quali nessuno darà mai credito o premi: i senzatetto.
Incominciamo da quando tutto aveva ancora un senso: non sapevo nulla dell’esistenza dell’Altra Città di Torino.
Non sapevo ancora che il dramma della fissa dimora riguardasse, ancora negli anni Duemila, persone comuni. Persone come i lettori di questo racconto. Persone che invece immaginavo coinvolte in giri di droga, malavita o con problemi psichici.
È disarmante osservare quanto la strada disumanizzi gli individui, rendendoli al tempo stesso lottatori dal mattino fino a notte fonda: protagonisti inconsapevoli di una partita ardua e senza spettatori.
E’ proprio da qui che il mio racconto comincia: dalla lotta.
Ricordo ogni dettaglio della conoscenza con Giuseppe; era accanto a me durante la cena: barba lunga, poco curata e sguardo indecifrabile, determinato e rassegnato allo stesso tempo.
Indecifrabile era anche il suo atteggiamento. Avevo da poco iniziato a lavorare presso il centro Tari, un’organizzazione che distribuisce cibo e dispone di posti letto per i senzatetto. Le persone senza fissa dimora presenti al dormitorio si potevano dividere essenzialmente in due categorie: chi parla e chi tace. Letteralmente. Una persona silenziosa che mangia da sola con lo sguardo imbronciato difficilmente parla con gli altri del centro, ancor meno con i volontari, se non per chiedere shampoo o schiuma da barba. Il dormitorio non era certo un posto che rallegrava gli animi, condividere le medesime sventure non rilassava più di tanto gli utenti. Altri al contrario, seppur molto meno frequentemente, si aprono con tutti per raccontare storie, problemi, avventure.
Giuseppe apparteneva alla seconda categoria: era da tre giorni che condividevamo la cena e non aveva rivolto la parola a nessuno. Per questo mi ha colpito molto quando mi prese da parte per parlarmi. Avevo appena terminato una discussione con un altro volontario sulle arti marziali: dibattevamo e scherzavamo sull’importanza dell’autodifesa.
Il suo tono di voce era particolarmente calmo e deciso: – Il Karate forma dei lottatori, non dei picchiatori. Lottare è la Nobile Arte per eccellenza, picchiarsi è ripugnante. Oggi vedo che va tanto di moda picchiarsi, praticare queste nuove arti marziali di cui parlavate che mirano solo a far del male fisico all’avversario. Non uscire dal campo da gioco, controllo interiore, previsione delle mosse dell’avversario: volevo vivere di questo. Non uscire, controllo, prevedi. Non uscire, controllo, prevedi. La sensazione di poter palpare la logica del mondo, di poterla modellare a mio piacimento. Conservare tale sentimento era lo scopo della mia lotta, ecco perché non ho mai perso un incontro importante: avevo il continuo terrore di perdere questa sensazione. Il giorno in cui sono diventato campione nazionale ho dato tutto me stesso per non pensarci, ma il momento era arrivato – .
Cercando di riempire la pausa di silenzio nel modo meno invadente possibile gli ho chiesto timidamente: – Quale momento? -.
L’autunno stava finendo e pian piano le notti iniziavano a farsi più lunghe e rigide. Il freddo mi penetrava nelle ossa e nonostante il mio immane sforzo per cercare di rimanere immobile, un leggero tremitio mi scuoteva di continuo. Giuseppe, al contrario, sembrava stare perfettamente bene. La sua camicia amaranto logora e il suo golf grigio sbrindellato erano visibilmente insufficienti per poter sopportare una tale temperatura, eppure lui non faceva una piega. Mentre parlava i suoi occhi rimanevano fissi nei miei, tanto da procurare un certo imbarazzo. Il modo preciso e fluido di muovere le mani era quasi ipnotico: sembrava si stesse preparando a uno di quei combattimenti di karate che si vedono nei primissimi film di Bruce Lee. La calma nella sua voce e le rughe espressive sul suo volto abbronzato mi hanno rapito completamente.
Comunque ha ignorato la mia domanda e ha continuato seguendo il filo del proprio discorso: – Dentro di me lo stavo già realizzando: “Non raggiungerò mai più questi livelli”. “Con il karate ho guadagnato pochissimo, è arrivato Quel momento”. “Ma adesso cosa faccio? Posso fare il maestro. Perché no, qualcuno che vorrà fare karate ci sarà! Il momento è arrivato, coglione. Non ti resta che accettare tutto ciò che ti sta intorno perché scelte non ce ne sono, caro mio: le cene a parlare di quanto è forte l’ultimo acquisto della Juventus, il dilemma sul colore della nuova macchina di Luca, e preparati a vedere l’album fotografico del cane di Lilly. La tua unica lotta sarà quella di scegliere il nuovo divano, coglione”. Va bene il momento era arrivato, d’accordo, e allora? Era arrivato il momento di comprendere le regole del gioco che ho sempre schifato e odiato, ero certo che avrei trovato una motivazione che mi spingesse a lottare per qualcosa, ci sarà sicuramente. Potevo fare il maestro di karate, insegnare ciò che meglio so fare agli altri, mettere via un po’ di soldi… – .
Un pazzo? Possibile. Era la terza categoria che precedentemente non avevo citato. Eppure a me sembrava tutt’altro che insano di mente.
Rideva sommessamente: – Conoscevo già il mio destino, avrei comprato la palestra del padre della mia ragazza. L’avrei rimessa a posto e mi sarei messo a insegnare karate. Ma non riuscivo a rispondere ad alcune domande: per quale ragione quella ragazza sarebbe diventata mia moglie? Perché stavo vivendo una vita non mia? Perché non avevo abbastanza coraggio per rifiutare tutti i canoni e valori imposti a forza da una società che non ho mai compreso e rispettato? Non sono state le tasse-usura del fisco, neanche il fatto che mia moglie sia scappata via all’ennesima chiamata della banca, le cause della mia situazione attuale. La ragione è un’altra: la mia totale incapacità di rispondere a queste tre domande. Odiavo la città di provincia in cui vivevo: squallida, piatta, schiava dell’apparenza. Il vuoto della sua essenza aveva inghiottito ogni rapporto sociale, anche la relazione con mia moglie: farsi vedere felici dai parenti e dagli amici era oramai divenuto l’unico obiettivo di vita. Volevo evadere, volevo dare fuoco a ogni singolo monotono punto della città, volevo rendere cenere tutto ciò che era intorno a me. Avrei afferrato qualsiasi appiglio di fuga, ma non ho avuto il coraggio. Il terrore di provare a comprendere nuove logiche mi assaliva in quanto già non riuscivo a capire quella attuale, che perlomeno mi dava sicurezza, ma che si prendeva gioco di me allo stesso tempo, facendomi capire che una qualsiasi opzione non poteva che essere peggiore -.
Non avevo parole, non sapevo come reagire a una tale apertura del proprio animo. Non mi era mai successo, mai con una tale profondità. Neanche con chi conoscevo da tempo. Blateravo dei timidi “capisco” per tentare di renderlo partecipe del mio ascolto e della mia comprensione.
Sempre calmo ha proseguito: – Mi ricordo bene l’ultimo giorno di permanenza in un’abitazione stabile: di tutto avevo provato per cercare di vincere una partita ad un gioco del quale ancora mi sfuggono le regole. La vita mi aveva sbattuto miseramente per terra, deridendomi. Vendita di ciò che avevo. Rideva. Richiesta di prestiti a qualche parente. Rideva. Provare a cercare e ricontattare mia madre. Aveva le lacrime da quanto rideva. Non ho mai perso un incontro in questo modo: risate, nessun rispetto e colpi bassi. Chi era il mio avversario? Le tre domande -.
Successivamente si è acceso una sigaretta: – Il giorno era arrivato, ho impacchettato quel poco che avevo e ho lasciato l’abitazione. Panchine? Stazione? Bussare alla porta di amici? Non lo sapevo come avrei passato la notte. Neanche me lo ricordo, forse perché ero ubriaco. Forse perché è diventata la routine. Forse perché nessuno tende a ricordare le sconfitte. Mi ricordo solo che a un certo punto, seduto sulla panchina di Porta Nuova, ho cominciato a ridere, in mezzo al disprezzo dei passanti -.
La mia faccia era incredula.
– Sì, ridevo davvero. Sì, forse era anche per l’alcol. Ero un rifiuto, uno scarto. Non è forse vivere come uno scarto il modo migliore per alienarsi da ciò che ho sempre disprezzato? -.
Una frase piuttosto ad effetto. Mi sono limitato ad annuire.
Il suo modo di fumare rispecchiava la sua parlata: si prendeva lunghe pause tra un tiro e l’altro, poi accostava lentamente la sigaretta alle labbra e dopo un lungo tiro espirava il fumo lentamente con un gesto volutamente e naturalmente teatrale : – Faceva caldo, io non avevo nessuna intenzione di rimanere in quello schifo di agglomerato di cemento. Rimanere a girovagare in mezzo ai negozi, tra i portici opprimenti di via Roma, in mezzo a tante maschere colme di una disperata felicità. In quel momento ho preso una decisione che potrai considerare folle -.
Ho atteso per alcuni secondi: – Quale decisione? -.
Dopo aver lentamente fissato la sigaretta e successivamente la mia faccia incuriosita, con aria indifferente ha proseguito: – Avevo fatto il militare. Sono stato campione nazionale di karate. In Thailandia ho anche vissuto in una comunità di monaci che dedicano la propria vita alla meditazione, vivendo con i frutti del bosco in modestissime e rudimentali abitazioni. Certo il mio caso era ben diverso: si parlava di disperazione, non di meditazione, ma non era questo il discorso. Il punto è che non avevo paura di morire, mi terrorizzava soltanto ritornare incatenato. Ecco perché ho deciso di isolarmi nei boschi della Val di Susa: una tenda e alcuni coltelli-.
Solo una breve pausa per avere buttato via la sigaretta, uno sguardo verso il marciapiede pensieroso, poi riprese: – Ero libero e volevo rimanere tale: gli sguardi di disprezzo o compassione dei tanti schiavi che ogni giorno vedevo camminare da Via Roma fino ai giardini del Parco del Valentino mi riportavano al confronto con la mia vecchia e tanto odiata vita piena di false e avvilenti comodità. Io e il bosco. Nulla più. Non ha importanza quanto tempo sono stato, come sono sopravvissuto, come dormivo. Mi porterò sempre dietro l’amicizia con Miller -.
Morbosamente incuriosito ho chiesto: – Chi è Miller? -.
Sorrideva amaramente: – Ricordo bene il giorno dell’incontro: per la prima volta nella mia vita di senzatetto non ho provato diffidenza o vergogna durante un incrocio di sguardi. Aveva la testa e le orecchie perfettamente dritte. L’atteggiamento dell’alfa. Era chiaramente il capo. Mi guardava fiero. Ho deciso di condividere il risultato della mia caccia con lui. Abbiamo mangiato insieme, era soddisfatto, ed era riconoscente nei miei confronti -.
Il suo sorriso incominciava ad arretrare: – Ci vedevamo spesso, quasi ogni sera. Miller mi ascoltava molto, era attento. Invidiava la mia solitudine.
Un giorno ho deciso di aprirmi per spiegargli tutta la mia storia nel dettaglio. Avevo da poco incominciato a raccontargli di quando ho conosciuto mia moglie, cercando però di trovare i miei errori, di comprendere in che modo il mio pensiero poteva essere sbagliato. Non sono mai riuscito a finire quel discorso, in quanto i miei occhi hanno visto dell’inimmaginabile: un arbusto improvvisamente cade, e si palesa dall’ombra un orso.
Ero impietrito, fermo, incredulo. Non vi è stato neanche un momento per pensare. Miller era già tra i suoi artigli, era già scomparso, era già stato inghiottito dal bosco. Il suo folto pelo scuro imbrattato di sangue. Il suo sguardo invincibilmente fiero del capo branco che in fin di vita voleva solo incrociare il mio sguardo. Questi sono gli ultimi ricordi che ho di Miller -.
Dunque Miller era un lupo, io lo stavo immaginando come una persona.
Il suo tono calmo diventava sempre più concitato: – Poi le mie lacrime, la mia impotenza, la mia rabbia. Sassi, rami, terra. Distruggevo, rompevo e lanciavo tutto ciò che era attorno a me. Esattamente come avrei dovuto fare prima, nella mia vita.
Ho deciso di arrendermi, di tornare al mio destino. Ma da perdente. La sconfitta è incominciata nelle file al comune per elemosinare un sussidio, per chiedere ospitalità, per implorare un permesso di ritorno nella vecchia e tanto detestata schiavitù.
Il risultato è stato un altro carcere, più umiliante ma meno duro. Una firma per entrare e una firma per uscire, giustificando ritardi o esibendo permessi -.
Dopo una breve attesa, ha seguitato:
– No, non sono stato in carcere e neanche ai domiciliari. Ho iniziato così la mia vita presso i dormitori. Immerso in questo odore di chiuso, di scaduto e di vecchio che quantità ingenti di detersivo e disinfettante facevano di tutto per eliminare, ma invano.
Il disinfettante cerca di eliminare dalla nostra coscienza l’idea di rifiuto, di povertà di scarto.
Lo stesso sforzo di tutti coloro che ci circondano. Ma, in fondo, prima di arrivare qui mai mi sono curato di queste situazioni. Neanche pensavo esistessero. E adesso mi trovo qui, a parlare con chi vive al confine tra la realtà e l’immaginazione.
Ora voglio uscire da qui, vorrei semplicemente un lavoro, vorrei tramutare il mio rifiuto verso ciò che avevo intorno in una forza di cambiamento: se non per la società, per me stesso -.
Articolo a cura di Nicola Samana